Sedetevi pure, ma non tentate di mettervi comodi perché, quel che vedrete, non sarà per niente accomodante.
Il testo-mosaico di Oscar Wilde non potrebbe essere meno confortante e più irriverente. I brani dal De profundis, dalla Salomé, dal Dorian Gray ed altro ancora sembrano scritti ieri e, giustamente, la contestualizzazione ha giocato sulla sfalsatura temporale e sull’ambiguità sessuale. Le affermazioni di Wilde al processo e gli arguti aforismi umiliano, non solo il giudice al suo cospetto, ma proprio l’intera comunità, accusata di moralismo e di assenza di sensibilità estetica: uno spettacolo che non risparmia sferzate a nessuno. Per infierire spudoratamente sullo spettatore, l’ultima regia di Giuseppe Tesi ha scomodato anche Beethoven, i Dead can dance, Voltaire, Tenco e i più disparati materiali musicali, tutti pronti a implodere nell’atto teatrale. La recitazione è asciutta e, a tratti, isterica, talvolta malinconica. L’eros sembra suggerire la trama dei rapporti fra i personaggi, chiusi in un vicolo cieco che li inchioda ad una realtà – essa sì – oscena. Essi sono condannati a una comunicazione – non comunicazione, priva di feedback in cui solo il mittente-Wilde è credibile in quanto portatore di un ego già di per sé teatrale e teatralizzante: la dimensione spazio-temporale risulta satura e problematizzata. Lo spettatore ha consumato la sua palingenesi con la chiusura di un rito che lo sottrae alla barbarie della bruttezza.
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